The day after
di Carla Baroni
Sì, fummo vinti. All'albero appendemmo
il flagello e di spine la corona
noi nuovi cristi
fatti d'argilla a somiglianza d'uomo
ma con nel petto il desiderio antico
di risalire verso più alte cime.
Nascevano le lune attorno a un sole
che si faceva sempre più nemico
una palla di fuoco pronta a esplodere
come una bollicina di sapone.
E in questo day after in cui si contano
solo le teste dei sopravvissuti
la cenere ancora arroventata
è l'unico lucore in tanto buio.
Strisciamo nel silenzio delle strade
senza vederci, consci
d'altre presenze, d'altri
esseri come noi alla ricerca
di quello che fu un giorno il nostro vivere.
Ma poco ricordiamo, poco resta
di quella immane giostra di formiche
che popolava il mondo.
O noi Titani
tutto questo sognammo
e nel silenzio s'ode
solo il deluso muoversi dei passi.
Possibile che un attimo d'eterno
abbia distrutto un sogno, una follia
che ebbe vascelli e remi sin dal nascere?
C'è stato sempre
un desiderio forte di rivincita,
di oltrepassare il limite, di andare
al di là della siepe del già noto.
Anche il cavallo corre, la carota
gli penzola davanti, premio ambìto
a quel galoppo che gli sfianca i reni.
Verrà la sera
e già stremato e stanco
avrà la voglia solo di dormire.
Forse è giunto il momento
di questo nostro sonno senza fine
o forse
del Lete già approdammo a mesta sponda.
Non si conosce il dopo
e questo è
l'oscuro incoercibile castigo
di chi ci volle schiavi al suo comando.
Non ci accorgemmo di essere pigmei
migrati nella terra dei watussi.
Il miraggio
ci rese ciechi sin dall'alba e il sole
arroventava l'ago della bussola.
I segni non vedemmo: già i rondoni
il nostro mare non attraversarono
per artigliarsi immobili alla gronda
e il cielo non ferirono di gridi
quando la sera al buio si tramuta.
Ma tutto cambia:
ormai da tempo i corvi
erano a cerchio sui merli della torre.
Vigilavano
attente sentinelle
di un esercito occulto a noi nemico.
E le lune nel cielo, tante lune
brillavano anche in notti di tempesta.
E queste ci ingannarono.
Le scambiammo
per una nostra intrepida conquista,
dei fari aggiunti
a rischiarare ogni notturna impresa.
Non più alternarsi dello scuro e il chiaro
quando abat jour stellari erano nati
a darci sempre vigoria di luce.
E non capimmo
che il cosmo è un orologio in cui un granello
un sol grano di polvere lo inceppa
e ritornare
lo fa al primigenio caos
al vorticare
di atomi impazziti senza guida.
Il giocatore
non si ferma se ha perso la partita.
Altre ne vuole a riscattar la perdita
finché rimasto senza un soldo in tasca
si pente dello stolido suo fare.
Ma se gli si presenta l'occasione
ancora gioca, ancora perde ché
l'ansia di vincere gli ottenebra la vista
non è più lucido
dimentico del gioco e delle regole
e rischia, rischia
unico suo obiettivo
di trionfare, di mostrare al mondo
che egli non è caduto nella polvere.
Ecco che giocatori scriteriati
anche noi ansiosi
ricontammo le carte ad una ad una
senza renderci conto che segnata
qualcuna era sin dalla prima mano.
E che nessuna vincita
ci avrebbe mai sfiorato con le dita.
Sì, fummo ciechi, ebbri solamente
di questo nostro avvicinarsi all'Oltre
senza capire, senza mai sapere
qual limite ci fosse al nostro andare.
E ci rimane ancora stretta in pugno
la gomena dell'àncora che all'affondo
si srotolò per riportarci a riva.
Chissà se questo buio è vero buio
quello di un mondo che si è spento oppure
è il nostro buio, l'oscura
fine improvvisa della nostra vita
e noi anime stanche che vaghiamo
a ritrovare
la persa umanità del nostro esistere
quello che fu lo scopo o il desiderio.
E il buio ci impedisce di vedere
se lasciamo
impresse nel terreno ancora orme,
se siamo invero dei sopravvissuti
o sol coloro ai quali si è richiuso
per sempre al palcoscenico il sipario.
di Carla Baroni
Sì, fummo vinti. All'albero appendemmo
il flagello e di spine la corona
noi nuovi cristi
fatti d'argilla a somiglianza d'uomo
ma con nel petto il desiderio antico
di risalire verso più alte cime.
Nascevano le lune attorno a un sole
che si faceva sempre più nemico
una palla di fuoco pronta a esplodere
come una bollicina di sapone.
E in questo day after in cui si contano
solo le teste dei sopravvissuti
la cenere ancora arroventata
è l'unico lucore in tanto buio.
Strisciamo nel silenzio delle strade
senza vederci, consci
d'altre presenze, d'altri
esseri come noi alla ricerca
di quello che fu un giorno il nostro vivere.
Ma poco ricordiamo, poco resta
di quella immane giostra di formiche
che popolava il mondo.
O noi Titani
tutto questo sognammo
e nel silenzio s'ode
solo il deluso muoversi dei passi.
Possibile che un attimo d'eterno
abbia distrutto un sogno, una follia
che ebbe vascelli e remi sin dal nascere?
C'è stato sempre
un desiderio forte di rivincita,
di oltrepassare il limite, di andare
al di là della siepe del già noto.
Anche il cavallo corre, la carota
gli penzola davanti, premio ambìto
a quel galoppo che gli sfianca i reni.
Verrà la sera
e già stremato e stanco
avrà la voglia solo di dormire.
Forse è giunto il momento
di questo nostro sonno senza fine
o forse
del Lete già approdammo a mesta sponda.
Non si conosce il dopo
e questo è
l'oscuro incoercibile castigo
di chi ci volle schiavi al suo comando.
Non ci accorgemmo di essere pigmei
migrati nella terra dei watussi.
Il miraggio
ci rese ciechi sin dall'alba e il sole
arroventava l'ago della bussola.
I segni non vedemmo: già i rondoni
il nostro mare non attraversarono
per artigliarsi immobili alla gronda
e il cielo non ferirono di gridi
quando la sera al buio si tramuta.
Ma tutto cambia:
ormai da tempo i corvi
erano a cerchio sui merli della torre.
Vigilavano
attente sentinelle
di un esercito occulto a noi nemico.
E le lune nel cielo, tante lune
brillavano anche in notti di tempesta.
E queste ci ingannarono.
Le scambiammo
per una nostra intrepida conquista,
dei fari aggiunti
a rischiarare ogni notturna impresa.
Non più alternarsi dello scuro e il chiaro
quando abat jour stellari erano nati
a darci sempre vigoria di luce.
E non capimmo
che il cosmo è un orologio in cui un granello
un sol grano di polvere lo inceppa
e ritornare
lo fa al primigenio caos
al vorticare
di atomi impazziti senza guida.
Il giocatore
non si ferma se ha perso la partita.
Altre ne vuole a riscattar la perdita
finché rimasto senza un soldo in tasca
si pente dello stolido suo fare.
Ma se gli si presenta l'occasione
ancora gioca, ancora perde ché
l'ansia di vincere gli ottenebra la vista
non è più lucido
dimentico del gioco e delle regole
e rischia, rischia
unico suo obiettivo
di trionfare, di mostrare al mondo
che egli non è caduto nella polvere.
Ecco che giocatori scriteriati
anche noi ansiosi
ricontammo le carte ad una ad una
senza renderci conto che segnata
qualcuna era sin dalla prima mano.
E che nessuna vincita
ci avrebbe mai sfiorato con le dita.
Sì, fummo ciechi, ebbri solamente
di questo nostro avvicinarsi all'Oltre
senza capire, senza mai sapere
qual limite ci fosse al nostro andare.
E ci rimane ancora stretta in pugno
la gomena dell'àncora che all'affondo
si srotolò per riportarci a riva.
Chissà se questo buio è vero buio
quello di un mondo che si è spento oppure
è il nostro buio, l'oscura
fine improvvisa della nostra vita
e noi anime stanche che vaghiamo
a ritrovare
la persa umanità del nostro esistere
quello che fu lo scopo o il desiderio.
E il buio ci impedisce di vedere
se lasciamo
impresse nel terreno ancora orme,
se siamo invero dei sopravvissuti
o sol coloro ai quali si è richiuso
per sempre al palcoscenico il sipario.